Luci e ombre della filiera moda
Il 2 febbraio 2021 si è chiusa la prima fase di consultazione sulla Strategia UE in materia di prodotti tessili sostenibili, che sarà adottata, secondo la road map del Green Deal europeo, nel 3° trimestre 2021. Scopo dell’iniziativa è aumentare la sostenibilità del settore e assicurare la ripresa dell’industria tessile duramente colpita dalla pandemia che ha determinato un’improvvisa ma rapida diminuzione della domanda da parte dei consumatori di prodotti tessili con conseguenti problemi di liquidità e disoccupazione nel settore.
Filiera moda sostenibile non significa solo vendita di tessuti ecosostenibili – come il cotone biologico certificato ad esempio – ma comprende molto altro. Il consumo globale di fibre sintetiche è aumentato da poche migliaia di tonnellate nel 1940 a oltre 60 milioni di tonnellate nel 2018 e continua a crescere. Dalla fine degli anni ’90, il tessuto poliestere ha superato il cotone come fibra più comunemente utilizzata nei tessuti. Sebbene la maggior parte delle fibre tessili sintetiche sia prodotta in Asia, l’Europa si distingue come il più grande importatore mondiale di fibre sintetiche per valore commerciale, pur essendo produttrice ed esportatrice di tali fibre.
Oltre il 70% delle fibre tessili sintetiche viene trasformato in abbigliamento e tessuti per la casa. Il resto è utilizzato per tessuti tecnici (indumenti per la sicurezza) e per usi industriali (veicoli e macchinari). Le fibre sintetiche, a differenza delle fibre tessili naturali, sono economiche e versatili, consentendo la produzione di tessuti economici, per la fast fashion e per indumenti durevoli.
La produzione UE di fibre sintetiche è stata pari a 2,24 milioni di tonnellate nel 2018: 1,78 milioni di tonnellate sono state importate, 0,36 milioni di tonnellate esportate e 3,66 milioni di tonnellate consumate. Mentre dagli ultimi dati (2020) forniti dall’European Bioplastics, la produzione e l’uso di fibre sintetiche a base biologica è attualmente trascurabile.
Più della metà della produzione mondiale di fibre è costituita da poliestere, la fibra sintetica più comune (55 milioni di tonnellate nel 2018), essendo resistente e di basso prezzo. L’abbigliamento rappresenta una parte importante del suo utilizzo, come alternativa più economica e sottile al cotone. Dopo il tessuto poliestere, la fibra sintetica più comune è il nylon, nel 2018 ne sono stati prodotti oltre 5 milioni di tonnellate.
In Europa, circa un terzo dei rifiuti tessili viene raccolto separatamente e gran parte viene esportato per il riutilizzo o il riciclaggio all’estero. Sebbene le percentuali varino da Paese a Paese, circa il 60-70% di tutti i tessuti raccolti viene riutilizzato (localmente o all’estero), il 10-30% viene riciclato e il 10-20% viene incenerito per il recupero energetico o messo in discarica. I tessuti che non vengono raccolti separatamente finiscono tra i rifiuti misti. A livello globale, si stima che solo lo 0,06% di tutti i rifiuti tessili (prodotti tipicamente ricchi di cotone) venga riciclato in fibre da utilizzare in nuovi prodotti tessili. La produzione di fibre sintetiche richiede grandi quantità di energia e contribuisce in modo significativo ai cambiamenti climatici e all’esaurimento delle risorse di combustibili fossili. Tuttavia, a differenza del cotone, la fibra naturale più comune, la produzione di fibre sintetiche non richiede risorse agricole o l’uso di pesticidi o fertilizzanti tossici.
L’industria della moda ha un impatto pesantissimo sull’ambiente e le fibre sintetiche sono tra i principali responsabili di questo inquinamento. L’intera filiera della moda produce il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica e il 20% delle acque reflue di tutto il mondo (uno dei punti più critici della filiera moda è infatti il trattamento delle acque di scarico che devono essere riutilizzate o smaltite). Per creare, per esempio, un solo paio di jeans occorrono circa 7.500 litri d’acqua. L’acqua usata dalle grandi multinazionali della moda contiene un’alta quantità di microplastiche molto pericolose per l’equilibrio dei nostri mari e oceani.
Secondo una ricerca condotta dalla Commissione Europea, l’80% dell’impatto ambientale di un prodotto è frutto della sua progettazione che influenzerà tutte le fasi successive di produzione. Su questa base l’Unep (il programma ambientale delle Nazioni Unite) prevede che, se questa situazione non cambierà, entro il 2050 l’industria della moda sarà responsabile di un quarto del bilancio mondiale di emissioni di CO2. La chiave della svolta sta quindi nella diffusione e vendita di tessuti ecosostenibili: da quelli riciclati alle fibre tessili naturali.
Nel “Piano d’azione per l’economia circolare”, la Commissione UE ha individuato i prodotti tessili come una categoria prioritaria per la potenzialità di circolarità, riconoscendo che i tessili sono la quarta categoria di maggior impatto per uso di materie prime fondamentali qual è l’acqua, dopo cibo, alloggi e trasporti, e la quinta per emissioni di gas serra.
Ma per fortuna la moda è anche una grande esploratrice, sempre aperta a sperimentare nuovi materiali innovativi che siano in grado di spostare i gusti e la cultura del momento, in base alle richieste del cliente. E quello che oggi sempre più richiede il mercato, fatto di clienti sempre più attenti, consapevoli ed esigenti è una moda sostenibile lungo tutta la sua filiera. Dai tessuti fino al packaging.
Il cotone biologico certificato e le altre fibre
Una delle classificazioni più utilizzate suddivide i tessuti in naturali, ovvero derivati da fibre organiche o di origine animale, e il cotone biologico (certificato) o cotone organico è una di queste, e i tessuti “man made”, cioè prodotti artificialmente dall’industria chimica. Alla prima classe appartengono, per esempio, oltre al cotone, il lino, la canapa tessile, la lana, la seta, il caucciù o gomma naturale, la pelle e il cashmere, mentre nella seconda categoria convergono tutti i tessuti sintetici come il nylon e il tessuto poliestere, ottenuti da materiali fossili, e il rayon e l’acetato, realizzati partendo dalla cellulosa degli alberi.
In termini di sostenibilità c’è da dire però che l’origine non decreta necessariamente l’impatto ambientale del materiale: a rendere i tessuti ecologici è il processo produttivo a cui viene sottoposta la fibra.
Non tutte le fibre tessili naturali, quindi, sono necessariamente ecologiche e sostenibili. Questo perché per considerare un tessuto sostenibile occorre che la materia prima sia prodotta, coltivata/lavorata in laboratorio e trasportata seguendo degli standard ben precisi, stabiliti per tutelare l’ambiente e le realtà sociali presenti nel territorio. Il cotone è la fibra naturale più coltivata e utilizzata al mondo da moltissimo tempo. Il cotone biologico o cotone organico (organic cotton), sta conquistando il mercato dell’abbigliamento ogni anno di più, proprio grazie alla sua attestazione ecologica.
A differenza di quello standard, il cotone biologico viene coltivato secondo le regole dell’agricoltura biologica, proprio come accade per i prodotti alimentari.
Nella produzione del cotone biologico dunque, non vengono usati pesticidi, fertilizzanti, diserbanti (dunque anche meno inquinamento delle falde acquifere), c’è un minor utilizzo di acque blu, ovvero le acque marine e sotterranee (circa il 91% in meno rispetto alla sua controparte non green) e una riduzione di emissioni di gas serra.
Cotone, lino, juta, canapa, agave, kapok, ramié, cocco, ananas ginestra, lana e seta rientrano nella cerchia dei tessuti derivati da fonti rinnovabili e, tra questi, anche l’acetato, il triacetato e la viscosa che vengono prodotti artificialmente partendo dalla cellulosa degli alberi o dagli scarti di altre filiere produttive. Nonostante la loro origine naturale questi materiali trovano un limite nella capacità biologica di terre da coltivare e nell’insufficiente disponibilità di bestiame.
Ecco perché sono nate le certificazioni Gots (Global Organic Textile Standard) per il cotone organico, New Merino per la lana etica e OCS (Organic Content Standard) che garantiscono la sostenibilità etica e ambientale del tessuto controllando l’intero processo produttivo, dalla coltivazione della fibra alla lavorazione e nobilitazione del filato.
La presenza di queste certificazioni attesta quindi il controllo e il rispetto degli standard internazionali su tutti i livelli di produzione.
Proprio come per il cotone biologico certificato continuano le innovazioni riguardo i tessuti eco-sostenibili nel campo della moda. E sono sempre più numerosi gli esempi di realtà anche dell’industria tessile in Italia (uno dei settori dell’industria manifatturiera più importanti del nostro Paese, che con oltre 400.000 addetti, occupa il 12% di tutti i lavoratori del settore manifatturiero) che si impegnano nello sviluppo di nuovi tessuti sostenibili. E così in Italia c’è per esempio chi produce fibra di latte (scaduto per evitare sprechi), tessuti che derivano dalle arance o ancora dalla lavorazione delle alghe, dalle banane, dal caffè o dall’ortica. Sempre e solo seguendo i valori responsabili del Made in Italy.
Tessuti riciclati eco sostenibili
Questa categoria comprende tutti quei tessuti che possono essere riutilizzati così come sono, o riciclati all’interno di un nuovo ciclo produttivo. Nel secondo caso si tratta di materiali che provengono dalla raccolta di abiti dismessi, da oggetti post-consumo appartenenti ad altri settori industriali o da scarti ed eccedenze prodotti nei diversi stadi della filiera. Tra i più diffusi troviamo la lana rigenerata, prodotta partendo da vecchi indumenti o residui tessili e il cotone riciclato che, a differenza di quello vergine, presenta però una qualità di gran lunga inferiore obbligando i produttori a miscelarlo con altre fibre.
Quella del riciclo è un’ottima soluzione anche per ridurre i rifiuti di tessuti sintetici che non sono biodegradabili. Generalmente riportati alla loro composizione originaria attraverso una depolimerizzazione, i materiali di origine fossile riciclati per via chimica conservano più o meno la stessa qualità, a prescindere da quante volte sono stati ripristinati. È per questo che si è deciso di introdurre delle certificazioni come Global Recycled Standard (GRS) che controllino effettivamente se la fibra proviene da materia riciclata e non vergine, assicurando i giusti attributi per la sostenibilità.
Esempi di packaging sostenibile nella moda
Quando si parla di sostenibilità di un prodotto non si può fare a meno di porre attenzione anche a tutte le componenti che lo accompagnano. La sostenibilità del packaging per il fashion sta diventando un tema di grande importanza, soprattutto per l’impatto crescente dell’e-commerce in questo settore.
Il packaging genera in Italia ogni anno 217kg di rifiuti pro-capite (dati Eurostat riferiti al 2017). L’Italia è al terzo posto in Europa per volume di rifiuti generato dal packaging e viene subito dopo la Germania (227kg pro-capite) e il Lussemburgo, primatista assoluto con 231kg pro-capite.
Nella moda si possono distinguere tre diverse tipologie di imballaggi: il packaging al cliente, quello per la logistica B2B e quello che si può definire accessorio.
Il packaging al cliente include articoli come:
- scatole di carta, cartone o plastica;
- shopping bags in carta plastica o tessuto;
- appendini, spesso in plastica, metallo o altri materiali;
- nastri, veline di carta, flanelle in tessuto per borse e scarpe;
- in qualche caso copriabiti.
Il packaging per la logistica comprende soprattutto appendini, cartoni, pallets in legno e, particolarmente importante le polybag o copriabiti. Quelli che definiamo come accessori sono principalmente etichette, cartellini e gadget per il cliente, che a rigore non costituiscono un imballaggio, ma “viaggiano” con esso e, soprattutto, assieme all’ imballaggio finiscono tra i rifiuti. La gamma dei materiali è ampia, ma ampie sono anche le possibilità di riduzione dell’impatto ambientale degli imballaggi.
Per alcuni dei materiali si sono già fatti dei passi in avanti, come per esempio con carta, cartone e legno, con la diffusione di standard come FSC (Forest Stewardship Council) o PEFC (Programme for Endorsement of Forest Certification schemes) che garantiscono che i materiali provengano da risorse naturali coltivate e raccolte in modo responsabile.
Per altri materiali invece si è ancora all’inizio di un percorso. Un caso interessante è quello delle polybag, i copriabiti in polietilene – plastica quindi - trasparenti, che i produttori di abbigliamento utilizzano per proteggere gli abiti in tutti i trasporti, fino al negozio. È un materiale che unisce quasi ogni tipo di marchio, da quelli di lusso, all’abbigliamento sportivo, al fast fashion. Si stima si consumino ogni anno circa 200 miliardi di polybag.
Ma esistono alternative che permettano di rendere il packaging riutilizzabile? La risposta è sì, e l’Organizzazione olandese Fashion for Good ha recentemente pubblicato un report da titolo “The rise of reusable packaging” dove analizza una serie di soluzioni.
Il rapporto è stato realizzato in collaborazione con l’Università di Utrecht e Sustainable Packaging Coalition e fornisce una panoramica degli imballaggi riutilizzabili nell’industria della moda, cercando di suggerire soluzioni che siano adottabili su larga scala. I risultati pubblicati nel documento dimostrano che la transizione verso un sistema di imballaggi riutilizzabili può portare a una riduzione di oltre 80% in emissioni di CO2 e 87% in meno di rifiuti di plastica.
Il mercato della moda green
Se l’anno della pandemia ha segnato una temporanea battuta d’arresto per il comparto fashion, l’attenzione intorno al tema della sostenibilità non sembra essere scemata. Tutt’altro.
Mentre nel 2019 le dimensioni del mercato mondiale della moda green hanno raggiunto un valore di quasi 6,35 miliardi di dollari (pari a 5,23 miliardi di euro al cambio di ieri), aumentate a un tasso di crescita annuo composto dell’8,7% dal 2015, nel 2023 si stima che il mercato raggiungerà gli 8,25 miliardi (quasi 6,8 miliardi di euro) con un incremento del 6,8%, dovuto principalmente alla crescente sensibilità nell’uso della moda etica per la sostenibilità, favorito anche dallo sviluppo di tecnologie come la blockchain. Secondo le statistiche dell’industria della moda ecosostenibile, il mercato dovrebbe poi crescere fino a 9,81 miliardi di dollari (8,08 miliardi di euro) nel 2025 e successivamente a quasi 15,2 miliardi (12,5 miliardi di euro) nel 2030, con un tasso di crescita annuo composto del 9,1%.
Questi i risultati di una ricerca condotta da Pwc Italia, che ha stimato come l’impatto delle nuove tecnologie nella catena del valore della moda supporti l’esplosione di un’economia circolare. Grazie all’impiego dell’innovazione tecnologica, si passerà da un sistema moda attualmente stimato a 3 trilioni di dollari a 5,3 trilioni (4,36 trilioni di euro).
Nel contesto complessivo della filiera moda, ogni anno 500 miliardi di dollari (412,1 miliardi di euro) sono persi a causa dello smaltimento, non utilizzo e mancato riciclo degli indumenti.